“TUTTIARMONIZZATI – Pd” Il gruppo Whattsapp dei responsabili finanziari dei comuni della provincia di Pordenone

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Le società in house possono assumere soltanto con le procedure del pubblico impiego

Le società in house possono assumere soltanto con le procedure del pubblico impiego

di Michele Nico

http://quotidianoentilocali.ilsole24ore.com

Alla società in house che gestisce servizi pubblici locali deve essere riconosciuta natura pubblica, con la duplice conseguenza che per le assunzioni di personale è soggetta alle regole del testo unico sul pubblico impiego e che i relativi soggetti operanti con funzione apicale sono pubblici ufficiali, per il fatto stesso di concorrere alla predisposizione di atti pubblicistici. Questo è il principio sancito dalla Corte di cassazione penale, sezione VI, conla sentenza n. 30441/2018 che conferma la condanna per i reati di abuso d’ufficio e di falso in atto pubblico dell’amministratore delegato, del responsabile della direzione del personale e del presidente della commissione esaminatrice di una società in house, coinvolti a diverso titolo nell’assunzione di 41 dipendenti secondo logiche clientelari e in violazione delle regole sul pubblico concorso.

I motivi della sentenza
Oltre le molteplici irregolarità riscontrate nella fase di reclutamento del personale (affidamento dell’attività di ricerca e preselezione a un consorzio privo di iscrizione all’apposito albo, false verifiche di regolarità in ordine ai curricula dei candidati, emissione di determine di assunzione senza istruttoria, eccetera), la parte più significativa della pronuncia si incentra sull’obiezione addotta dai ricorrenti. Gli imputati hanno sostenuto che i dirigenti della società in house – per il regime giuridico proprio di questo organismo strumentale – avrebbero piena autonomia nel dare corso alle assunzioni di personale, secondo quanto sostenuto dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili con la sentenza n. 7759/2017, nella parte in cui afferma che «una società in house non può essere equiparata a una pubblica amministrazione nel momento in cui assume del personale, agendo in questi casi le società in house come delle comuni società per azioni in regime tutto privatistico». Questo l’assunto, secondo i giudici della Corte, è estrapolato in modo arbitrario dal suo contesto e porta a conclusioni fuorvianti rispetto ai principi dell’ordinamento giuridico, che estendono invece la disciplina del reclutamento del pubblico impiego anche alle società in house, da considerarsi quali mere articolazioni organizzative della pubblica amministrazione.

Le norme
Il principio, introdotto per la prima volta dall’articolo 18 del Dl 112/2008 convertito dalla legge 133/2008, è stato poi ribadito dall’articolo 19 del Dlgs 175/2016 (testo unico sulle società partecipate), secondo il quale «le società a controllo pubblico stabiliscono, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale nel rispetto dei principi, anche di derivazione europea, di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei principi di cui all’articolo 35, comma 3, del Dlgs 30 marzo 2001, n. 165».

La giurispudenza
In effetti, la giurisprudenza ha più volte messo in luce la natura imperativa del suddetto articolo 18 del Dl 112/2008, da cui discende la nullità del rapporto di lavoro costituito contra legem e l’invalidità della relativa assunzione, salvo il diritto del lavoratore alla retribuzione per l’attività svolta (articolo 2126 del codice civile). Al riguardo il Consiglio di stato, sezione VI, con la sentenza n. 5643/2015 ha affermato che se una società in house incorre nella violazione delle regole previste da questo disposto, «il rapporto (…) è sanzionato con la nullità, intesa come invalidità improduttiva di effetti giuridici, imprescrittibile, insanabile e rilevabile d’ufficio e non già alla stregua di un mero vizio di violazione di legge, secondo i principi generali regolanti il regime di annullabilità degli atti amministrativi illegittimi».
Le società in house quindi devono obbligatoriamente effettuare il reclutamento delle risorse umane secondo le regole proprie del pubblico impiego, attivando sempre procedure trasparenti rispettose dei principi di pubblicità, parità di trattamento e imparzialità dell’azione amministrativa.

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Permessi per visite frazionati su «quote» inferiori all’ora e contingentati al 2018

Permessi per visite frazionati su «quote» inferiori all’ora e contingentati al 2018

Arrivano i primi pareri dell’Aran in materia di permessi per visite, terapie, prestazioni specialistiche o esami diagnostici disciplinati all’articolo 35 del contratto del 21 maggio 2018. In particolare si tratta del contingentamento dei permessi nell’anno 2018 (parere Cfl2) e del frazionamento dei permessi per periodi inferiori all’ora intera (parere Cfl3).

Contingentamento dei permessi per visite per l’anno 2018
L’articolo 35 del contratto offre un istituto del tutto nuovo e applicabile dal 22 maggio 2018. Si tratta di un plafon di 18 ore annue, fruibili nelle ipotesi di assenze per visite, terapie, prestazioni specialistiche. Ciò che andava chiarito, in mancanza di una previsione specifica, era se le 18 ore all’anno dovessero essere riproporzionate considerati i 7 mesi di maturazione, quelli cioè dall’entrata in vigore del contratto fino a fine anno, o se dovessero invece essere riconosciute per intero.
L’Agenzia ha spiegato che, mancando una espressa indicazione circa una eventuale maturazione progressiva del diritto ai permessi, gli stessi devono essere riconosciuti per intero nel 2018 anche se l’istituto contrattuale nasce il 22 maggio 2018. Questo anche nell’ipotesi in cui il lavoratore si sia assentato a giorni per la medesima motivazione, precedentemente la data del 21 maggio 2018.

Frazionamento dei permessi per periodi inferiori alla singola ora
Il frazionamento dei permessi fruibili a ore rappresenta una criticità dal punto di vista operativo e gestionale quanto maggiore è la frammentazione degli stessi. Questo con particolare riferimento alla verifica e al rispetto del monte ore a disposizione riferito all’istituto coinvolto.
L’Aran ha chiarito che l’articolo 35 del contratto 21 maggio 2018 riconosce la fruibilità dei permessi per visite, sia su base giornaliera sia su base oraria e, come spesso accade nelle dinamiche applicative delle norme, in mancanza di divieto espresso, ritiene che i permessi possano essere fruiti anche per frazioni inferiori alla singola ora, con imputazione al monte ora annuale delle 18 ore.
Nel parere si legge che qualora un permesso sia fruito per 3 ore e 31 minuti, la decurtazione dal monte ore a disposizione del lavoratore, sarà pari a 3 ore e 31 minuti.
La complicazione gestionale sta nella necessità di quantificare il residuo a minuti e la reale possibilità che il restante montante sia fruito per intero.
Infine, dal punto di vista giuridico, determinare la durata del permesso in ragione dell’effettiva fruizione dello stesso costituisce una sorte di « cronologia inversa».

La non agibilità dei locali comporta la necessaria chiusura dell’attività commerciale

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La non agibilità dei locali comporta la necessaria chiusura dell’attività commerciale

di Alessandro V. De Silva Vitolo

Il legittimo esercizio dell’attività commerciale è ancorato alla iniziale e perdurante regolarità sotto il profilo urbanistico-edilizio dei locali in cui essa viene posta in essere; di tal che risulta essere potere-dovere dell’autorità amministrativa inibire l’attività commerciale esercitata in locali rispetto ai quali siano stati adottati provvedimenti repressivi che accertano l’abusività delle opere realizzate ed applicano sanzioni che precludono in modo assoluto la prosecuzione di un’attività commerciale. È quanto afferma il Tar Campania con la sentenza 4 luglio 2018 n. 4448.

Il caso
La vicenda trae origine dall’impugnazione, da parte di un privato titolare di un’attività commerciale, di un’ordinanza comunale con la quale è stata ingiunta l’immediata chiusura dell’esercizio commerciale, vista la mancanza del certificato di agibilità dei locali presso i quali l’attività veniva svolta.
La peculiarità del caso de quo risiede nella affermata stretta correlazione tra il rilascio di un’autorizzazione commerciale e la conformità urbanistico-edilizia dei locali in cui l’attività commerciale si svolge.
Infatti, il Tar, ha ammesso come il legittimo esercizio dell’attività commerciale è ancorato, non solo in sede di rilascio dei titoli abilitativi, ma anche, per l’intera sua durata di svolgimento, alla iniziale e perdurante regolarità sotto il profilo urbanistico-edilizio dei locali in cui essa viene posta in essere, con conseguente potere-dovere dell’autorità amministrativa di inibire l’attività commerciale esercitata in locali rispetto ai quali siano stati adottati provvedimenti repressivi che accertano l’abusività delle opere realizzate ed applicano sanzioni che precludono in modo assoluto la prosecuzione di un’attività commerciale.
Con ciò disattendendo le istanze del ricorrente in punto di illegittimità del provvedimento di chiusura motivato esclusivamente da ragioni urbanistico – edilizie e non su ragioni sostanziali di insalubrità o anti-igienicità dei locali.

L’approfondimento
Vale dare atto, brevemente, tanto della disciplina contenuta nel Dlgs 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio), il cui articolo 7, relativo agli esercizi di vicinato, nella parte rimasta in vigore dopo le modifiche e le abrogazioni apportate con il Dlgs n. 59 del 26 marzo 2010, che impone al soggetto interessato il rispetto dei regolamenti edilizi e delle norme urbanistiche, oltre che di quelle relative alle destinazioni d’uso; quanto degli articoli 24 e seguenti del Dlgs n. 380/2001 che prevede come al presupposto del rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche (oggetto della specifica funzione del titolo edilizio) si aggiunga anche quello del rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti che il certificato di agibilità aveva la funzione di attestare.

La decisione
Ebbene, il Tar Campania, decidendo per il rigetto del ricorso, ha affermato che nel rilascio dell’autorizzazione commerciale occorre tenere presente i presupposti aspetti di conformità urbanistico-edilizia dei locali in cui l’attività commerciale si va a svolgere, con l’ovvia conseguenza che il diniego di esercizio di attività di commercio deve ritenersi senz’altro legittimo se fondato su accertate ragioni di abusività dei locali nei quali l’attività commerciale viene svolta. Il legittimo esercizio dell’attività commerciale, infatti, a detta del Tar è ancorato, non solo in sede di rilascio dei titoli abilitativi, ma anche per l’intera sua durata di svolgimento, alla iniziale e perdurante regolarità sotto il profilo urbanistico-edilizio dei locali in cui essa viene posta in essere, con conseguente potere-dovere dell’autorità amministrativa di inibire l’attività commerciale esercitata in locali rispetto ai quali siano stati adottati provvedimenti repressivi che accertano l’abusività delle opere realizzate ed applicano sanzioni che precludono in modo assoluto la prosecuzione di un’attività commerciale.

Conclusioni
Nel caso di specie, la mancanza del certificato di agibilità dei locali di svolgimento dell’attività risultava già alla base dell’atto di diffida con il quale il Comune ha contestato alla ricorrente il comportamento inerte dalla stessa tenuto ben oltre i termini concessi ai proprietari, a far data dall’approvazione del Piano urbanistico comunale, per regolarizzare la propria posizione amministrativa ed eliminare i vizi ostativi per il proseguimento dell’attività.
Il Tar ha così accertato che il ricorrente non si fosse dotato del certificato di agibilità o di titolo equipollente, neppure fornendo prova di aver in corso altro procedimento finalizzato a regolarizzare l’aspetto in questione, concentrandosi piuttosto sulla tesi, che si è dimostrata infondata, della sostanziale irrilevanza della semplice mancanza del certificato di agibilità.
Constatata la carenza del presupposto di agibilità, secondo il Tar, bene ha operato il Comune impedendo lo svolgimento dell’attività commerciale mediante l’adozione di un provvedimento di natura doverosa e vincolata.

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